Addio giovinezza

 

Nel 98′ avevo 13 anni. Ero in seconda media, di musica sapevo poco nulla, se non per la fortuna di aver un fratello più grande e di qualche cover famosa imparata a scuola nelle ore di musica. Band come Doors, Deep Purple, David Bowie, erano parte di un lontano passato, i Nirvana e il grunge la nuova ventata ma già svanita ma che ancora influenzava il tutto. Guns’n and Roses qualcosa di incomprensibile, Prodigy and Spicy Girls la modernità più assoluta. Ma si era ancora tutti ragazzini per dare importanza a certe cose, finché un giorno comparve Acido Acida. Non si sa come. Ricordo che ascoltai la canzone su Striscia la Notizia. Le veline ballavano sulle note dell’inno alla confusione. Era troppo coinvolgente. A scuole in molti comparvero con la cassettina originale da ascoltare durante le gite scolastiche. Niccolò, il mio compagno di avventure dell’epoca mi registrò i primi 7/8 brani del CD sopra un’altra cassetta. Non potevamo fare altro che ascoltare e cantare. I brani erano così immediati che subito si imparavano. Era una sorta di ossessione e poco importa se si parlava di pasticche o eroina. Portai la cassetta con me anche al mare a Sottomarina, e la sera, invece di unirvi agli altri che giocavano e rimorchiavano ragazzine, io stavo là ad ascoltare Piove.

Dopodiché suonarono pure a Vicenza. Ma ero troppo piccolo e ignorai quel passaggio di fronte casa. I Prozac+ erano l’immediato, non erano il Grunge mai sfiorato, il Punk inglese, l’Hard Rock californiano. Erano la ribalta di una generazione che si rispecchiava in certi testi tristi e veritieri. Pordenone dopotutto fa parte del Nord Est. Ma erano la voce dei giovani Italiani, di un movimento di musica underground che finalmente esplodeva, che portava la gente a comprare Cd, a invadere i concerti, a pogare. Ed era tutto troppo vero, se si osservano ora certi vecchi live in Italia su Youtube. Il rammarico sta forse nel non essere mai riuscito a vedere un loro live o dei Sick Tamburo, ma non importa, forse tutto ciò rende tutto più mitologico, “di un c’ero anch’io”, perché quell’onda ha invaso pure me e vent’anni dopo ancora posso cantare ogni canzone di Acido e Acido senza dimenticarmi l’odore della loro musica.

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Reading Post-Industrial ” Al di là del nulla”

Venerdì 15 Febbraio 2019 dalle ore 19.00 presso il “Pane Quotidiano” di Vicenza andrà in scena il reading / performance tratto dal mio libro “Al di là del nulla” verranno letti e interpretati due racconti. Vi aspetto!

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Anteprima “Al di là del nulla”

copertina 8

Ciao, ti invio un’anteprima del mio esordio letterario: Al di là del nulla. Se il mio progetto può piacerti, contattami pure in privato e ti aggiornerò su ogni novità, a presto!

IL PROGETTO

Da qualche giorno ho iniziato una collaborazione con la casa editrice “Aletheia ” dell’editore Federico Faccioli di Verona ( http://www.aletheiaeditore.it/) per la realizzazione del mio primo libro. Esso consiste nel preordinare copie prima dell’effettiva stampa e realizzazione dell’opera. Questo perché la casa editrice è no-profit e non chiede a me nessun pagamento anticipato sul libro. Inoltre la stampa delle sole copie richieste evita sprechi di carta, tempo e denaro per chiunque.

PRIMA FASE: IL PRE-ORDINE

La prima fase sta nel richiedere direttamente al SOTTOSCRITTO una copia del libro. Potete farlo sulla mia pagina Facebook (Simon Trumpet) via Whatsapp: 3482461674 o via mail: (simonetrombin@libero.it)

L’obbiettivo minimo per partire con la stampa è quello di avere 100 ordini in un mese. Superati i 250 ordini il libro uscirà nelle libreria d’Italia compresa Feltrinelli.

IL COSTO

Il costo del libro ordinato sarà di 10 euro. Potrà essere pagato tramite bonifico bancario online, PayPal e denaro contante al momento della consegna. In ogni caso vi fornirò io le modalità e i tempi per i pagamenti. (Non deve essere pagato subito al momento dell’ordine). Senza pre-ordine le copie costeranno 15 euro.

LA CONSEGNA

Al momento della realizzazione effettiva della copia prevederò a organizzare un evento di presentazione ufficiale dell’opera nel vicentino, dove consegnerò personalmente le copie con autografo a chi le ha ordinate. In caso di impossibilità di partecipazione da parte vostre vi invierò personalmente la copia a casa tramite posta (chiedendovi il contributo per le spese di spedizione, ma su questo ci si può mettere d’accordo) ai contatti che mi fornirete.

Vi ringrazio ancora per l’attenzione, e ora, buona lettura!!

Introduzione

Al di là del nulla è una raccolta di otto racconti scritti nell’arco di diversi anni. Il carattere fondamentale dell’opera, e che dà unità alla stessa, sta nel constatare come le storie presentino una decisa e netta volontà di non “concludersi” in maniera risolutiva, ma di lasciare al lettore, e ai protagonisti degli episodi, la possibilità di andare oltre uno schema prefissato che stabilisce per “forza un finale. A tal proposito il titolo indica questa intenzione e suggerisce come dietro ogni fatto, ogni storia, ogni vita, possano nascondersi altri fatti, altre storie, altre vite.

La difficoltà di stabilire molto spesso la realtà oggettiva degli eventi, all’interno dei racconti, induce a non dare mai per scontata la soluzione più plausibile alla risoluzione della vicenda convincendo i protagonisti a investigare su quanto si nasconda alle spalle di ogni avvenimento narrato in maniera soggettiva. Ricerca che però porta inevitabilmente ad amare sorprese e ad amare scoperte che sono volutamente tenute nascoste o ritenute incomprensibili alla mente umana. Nel caso di “Catena informatica, ad esempio, l’indagine sulla “verità” si rivela impossibile da realizzarsi in quanto infiniti possono essere gli anelli che tengono unita la catena informatica, o come nel racconto, Al di là del nulla, in cui le sorti dell’umanità si riversano nelle casualità stabilite dall’esistenza di mondi paralleli. Mondi paralleli, o per meglio dire, salti spazio-temporali sono invece tematica del racconto “Un buon miscuglio di buchi neri”, dove, con irriverente fantasia e ironia, il protagonista viene a scontrarsi con le misteriose conoscenze della fisica quantistica.

I temi che per lo più si analizzano o vogliono essere rappresentati, sono quelli delle “rivoluzioni” atte da antieroi contro il sistema “mondo moderno” che annichilisce e distrugge ogni forma di pensiero, di vita e ribellione.

A tale scopo le ambientazioni ritratte in racconti come: “Al di là del nulla”, “Inizia a vivereCatena informatica e Test d’ammissionesono quelle di un pianeta evoluto tecnologicamente ma fortemente inquinato e depresso, e nel quale le persone vivono come esseri sottomessi alla società. Privati di emozioni e di sensazioni che possano rendere ancora una volta i protagonisti dei racconti esseri “umani”, la loro ripresa di coscienza può adempiersi solo tramite gesti “clamorosi” e che disubbidiscono alla comune ragione, come succede in maniera evidente nel racconto “La stanza”. Per Edward in Trapasso, invece, un equivalente gesto eclatante e decisivo per le sue sorti non ha gli stessi esiti e le stesse speranze positive nutrite, mettendo così per contraccolpo in risalto la natura malefica della specie umana. Arriviamo così in “Test d’ammissione”, dove protagonisti diventano manichini del tutto inconsci della loro natura alla prese con la crisi del lavoro.

Ma la rinascita personale può viaggiare anche sui binari differenti della psiche e dei giochi della mente, come avviene per la piccola Vika nel racconto “La cura”. La terapia migliore contro una misteriosa apatia risulta essere qui l’immaginazione capace di portare oltre i confini stabiliti tra la realtà e il sogno. Confini che in maniera più imponente vengono pure superati nello stesso “Test d’ammissione nel quale, sotto la guida spirituale del primo uomo sullo spazio: Jurij Gagarin, manichini sfidano la morte come grande passo di rivincita personale e per l’umanità intera.

Indice dei racconti:

Inizia a vivere

Catena Informatica

Test d’ammissione

Un buon miscuglio di buchi neri

La stanza

Trapasso

La cura

Al di là del nulla

INIZIA A VIVERE

È l’alba di un nuovo giorno.

Tra un’ora, tra un’ora ti devi svegliare. Adesso però devi muoverti, non hai molto tempo. Non lo so dove devi andare, intanto è importante che ti alzi; non pensare ad altro. La luce è soffusa; un leggero strato di nebbia penetra dalla finestra. Il tuo respiro si condensa sullo specchio di fronte alla parete dove poggia il letto.

Cambiati.

Ti sfili il pigiama con la tua pelle d’oca e le labbra screpolate. Mettiti un paio di calzettoni, i jeans, gli anfibi e il maglione nero. Vai in bagno e tira una pisciata lunga ma veloce; poi, lava il tuo viso dormiente per riprenderti. Prima di uscire ricordati di rivolgere un breve saluto al santino strappato appeso al muro: quel che rimane di una consumata rock star degli anni ’90. Prendi anche qualche spicciolo da sotto il materasso mentre soffi fra le mani per scaldarle.

Esci, non ti curare di chiudere la porta, nessuno potrebbe rubarti qualcosa: vivi con niente. Il corridoio è un ammasso di sporco e scarafaggi, i neon lampeggiano colorando i muri di verde, qualcuno chiede una dose.

Fuori incontri il vicino del tuo cane che accompagna il padrone al guinzaglio per una passeggiata al parco. Prega prima di immetterti in strada, non si sa mai cosa potrebbe capitare. Le auto transitano investendo gatti e cervi mutilati. Ai fianchi delle corsie, i marciapiedi raccolgono spazzatura e cartoni dove barboni dormono.

Il sole tarda a salire mentre le nuvole atomiche viaggiano veloci soffiate da uragani marittimi. La gente passa stanca e assonnata. Le corriere viaggiano vuote e il semaforo rallenta a diventare giallo. Qualche bambino scrive fra le vignette che formano i loro respiri col freddo, quando altri tentano di parlare con l’involucro del palmare a quell’ora.

Prosegui a volto basso, non farti notare.

Cammini tra piccole casette tutte uguali. I vecchi sono già in piedi nei loro cortili inglesi e coltivano i frutti del nuovo millennio: delimitatori segnaletici con catarifrangente. Niente ormai preoccupa le loro menti morte. Le mogli attendono sotto la veranda. Insieme hanno aspettato per un’intera vita quel raccolto e respirano dall’emozione finto ossigeno in bombola.

Fuggi invisibile.

Ti addentri verso il cuore della città. Uomini in giacca e cravatta ti affiancano; sembrano non sentirci, la loro testa è avvolta da fili e tastiere: è l’ultimo miracolo della tecnologia, lo chiamano computer auricolare. In mano portano i segni del progresso: calli da valigetta. Ignorano la tua esistenza ma sanno darti un numero, perché tu sei un dato, il loro indice proporzionale.

Starnutisci deciso, allergico a tanto sistema di quote. Sono i sintomi di una nuova malattia, di quelle che gettano per creare epidemie e morie di persone ritenute inutili per i valori della domanda e della richiesta. Ti stipulano come l’inflazione, a tassi.

Tu, sei uno di loro.

Agli angoli della strada piccole bancarelle mediche sorgono come funghi. Rifiuta ogni vaccino che regalano, puoi farne a meno. Cercano di contaminarti con i loro consigli sulla cura alla verità, ma da tempo è accertato: crea più morte il medicinale che il virus. RHA1, il nuovo sviluppo della peste creato a Monopoli. Compra e vendi epidemie via E-Bay; entra pure tu nella casta degli illuminati; spargi del sangue: vivrai in eterno sepolto fra banconote con i simboli delle sette segrete.

Attento, supera quel gruppo di paranoici con le mascherine, ma non toccarli. Non ti preoccupare troppo per loro, d’altronde anche tu sei un germe, sei un inutile parassita coltivato in laboratorio. Tua madre, quella volta, non ci ha messo nove mesi a concepirti. Un angelo, quel giorno di venticinque anni fa, si è affacciato alla finestra della sua camera: cercava una puttana. Ha donato a lei un po’ di magico sperma, perché tua mamma le ovaie le ha rimosse con una pillola dopo quello stupro a quindici anni da parte di un vibratore particolarmente entusiasta. In frigo sei rimasto qualche settimana, il tempo di ghiacciarti, poi sei stato sputato da una siringa nella vagina di quella donna che sarebbe diventata santa all’insaputa di tuo padre, Giuseppe.

E così sei una cavia, un topo da analisi, un esperimento, un marchio registrato, un’impronta del mercato del liquido seminale per donne angeliche senza uomini.

Fermati.

Osserva in quell’incrocio quei ragazzi che vanno a scuola. Oggi è giornata di campagna pubblicitaria. Il furgone del controllo dello sviluppo ormonale distribuisce il nuovo panino gratis agli adolescenti davanti all’istituto. Quanti sorrisi emergono dalle loro bocche. L’hamburger al gusto carne di mosche e salse assaggeranno a pranzo, per la gioia di genitori teenagers incollati alla TV in attesa del nuovo spot d’intrattenimento. Connettiti ora, più facile, più divertente, domina la ragione del non pensiero; da questo momento in avanti, puoi avere tutto senza alzarti dalla poltrona: recita una di queste pubblicità che mandano durante i cartoni delle sedici.

Un robot di mezza età che corre per perdere peso attira la tua attenzione. Il suo personal trainer gli ha comunicato una riduzione delle relazioni con macchinette di snack e bibite gassate. Ha una grossa e grassa lampada al centro della fronte, mentre una luce rossa segnala i battiti cardiaci. Segui il suo movimento ma non imitarlo.

Aumenta il passo ma senza dare nell’occhio e recati da coloro che ti hanno allevato, salvali. Qui, gira in questa laterale. Una telecamera, copriti il viso. Ecco la palazzina.

Sali al venticinquesimo piano. Sfonda la porta. Trovi tua mamma mentre pulisce il pavimento in plexiglas con l’aspirapolvere. Il frigo raffredda, la lavatrice lava, il ferro da stiro stira, la lavastoviglie scrosta, la radio suona, il PC scarica, il microonde scalda, il frullatore mixa, il telefono squilla, il cellulare vibra. Il rumore è assordante. Cerchi di comunicare con lei: mamma! Le urli, ti guarda ma è assorta sulla macchina. Stacchi la spina, tua mamma si spegne mentre l’elettrodomestico continua a mangiare ogni briciola di comprensione. Alle pareti della stanza i simboli del nuovo Dio venuto a raccontarci le mille e una storia sulla resurrezione. Una TV è appesa al posto del crocifisso.

Sei arrivato tardi, ti hanno preceduto.

Scopri che tuo padre, Giuseppe, non è in casa, cercalo. Riscendi i venticinque piani che ti separano dagli inferi. Incontri il postino nell’attico dell’ingresso, ti consegna un pacco, un pacco bomba.

Gettalo prima che esploda!!!

Bravo, hai sventato un nuovo attacco informatico.

Prosegui tra gli alti edifici del centro, cerca di non sembrare normale.

Spunta un suicida dal lato opposto del marciapiede. Lo riconosci da quello che porta: una sega in una mano, la Bibbia nell’altra. Non si comprende bene quello che possa fare. Colpisce un segnale autostradale, lo sega violentemente; il palo cade, le strisce pedonali spariscono. Senza pensarci attraversa la strada in piena libertà, gli automobilisti non capiscono: sbandano, frenano, chiamano un giudice di pace. L’uomo rivolge il libro al cielo, la mano vibra, una luce illumina il suo volto, uno sputo scende sul suo viso, i soppressori della legge lo investono, sbatte la testa a terra. È la fine e senza tante cerimonie viene raccolto e gettato nell’umido: al giorno d’oggi non c’è spazio per gli attentatori alla coscienza.

Forza, non è più tempo per proclami; vai al bar, forse è lì che puoi trovarlo.

Non sbagli.

Giuseppe è seduto su una sedia elettrica e fuma una sigaretta. Dice di chiamarsi Divo, la sua unica speranza rimasta è quella in un lifting di ultima generazione. Il tempo della gloria è finito, diglielo, il tramonto arriva per tutti.

Scandisce la parola S-u-c-c-e-s-s-o sfogliando una rivista. Sfili il giornale dalle sue mani; dice di essere il migliore, l’unico; insisti, digli che sei suo figlio, colui che conta più della fama. Urla che sei figlio di un angelo e che non sei frutto dell’amore ma di una sega.

Prova a fermarlo, sveglialo dalla storia, dalla fede, staccalo dalla macchina che lo consuma. Rivolge un saluto e preme il pulsante d’accensione. Una scarica lo travolge fulminandolo. La coltre di fumo si dipana dalla sua testa, dalle sue mani rendendolo cenere.

Ora sei solo.

Presto arriveranno pure a te. Si infiltrano da internet. Scaricano tutti i tuoi dati, sanno il tuo nome, il tuo aspetto, con chi esci. Hanno in mente la foto del tuo diciottesimo compleanno, sanno delle tue fratture, delle tue ferite, ti osservano da uno schermo mentre cresci, ti consigliano cosa mangiare, cosa comprare. Ti hanno messo il tuo primo profilattico, hanno deciso quando farti venire. Controllano i tuoi consumi, i tuoi gusti. Solo gli hacker della salute pubblica. Ti chiudono in una banca e pian piano prelevano parte di te. Ti considerano un debitore che per sempre dovrà pagare per i loro interessi. Scappa prima che ti catturino. Non hanno a genio le persone che cercano di salvarne altre.

Mischiati fra la gente.

Entra in quel supermercato. Non voltarti. Un cartello all’ingresso reca la scritta “Vietato agli intellettuali”. Un commesso sotto banco cerca di venderti un prodotto per la perdita dell’intelligenza.

Prosegui per le corsie. Detersivo 1, detersivo 2, mangiare per cani, per topi, per pinguini, prosciutti cotti, riso scotti, biscotti salati, biscotti secchi, biscotti grassi, cioccolata calda, con nocciole, al liquore, cereali al miele, alla frutta, alla crusca, pane bianco, pane nero, pane duro, pane all’olio, al latte, latte scremato, parzialmente, olio di semi vari, di mais, di girasole, carta morbida, soffice, doppio strato. Una gabbia di prodotti pronti a divorarti. 3×2, 4×4, tutto a una moneta, tutto a 99 centesimi, tutto a ruba, gli anziani sbandano fra di loro con carrelli gonfi di merce. Si mettono a litigare, qualcuno dà loro una pistola per farla finita. Uno in meno segnala un cartello luminoso.

Abbandona quel luogo di perdizione.

Una pattuglia della polizia, voltati. Via libera.

Mimetizzati, compra una toga metallica in un negozio qualsiasi. Diventa la massa, parla con qualcuno, fai finta di essere idiota. Ecco, ferma quella donna, chiedile qual è stato il giorno più bello della sua vita.

Non ricordo, devo rivedere le cassette che ho a casa, risponde.

Prova con un altro. Chiedi a quell’uomo cosa significa amare.

Alla TV hanno detto di amare il frigo come un figlio, penso sia questo il senso dell’amore, ribadisce.

È tardi, non puoi più salvare nessuno. La contaminazione è inarrestabile e presto scopriranno il tuo intento, penetreranno nella tua mente sana per renderla stupida.

Attento! Evita quel mucchio di donne. Cercano di ammaliarti con le loro gambe nude; sono solo dei ricettori che lavorano per loro, per renderti schiavo del sesso, per questo vale più una donna nuda sullo schermo che quella con cui ti sposi.

Allontanati, non diventare un maniaco.

Ti immetti in un viale e trovi un gruppo di manifestanti, ti rallenteranno. Questi disobbedienti, questi facinorosi sono la vecchia classe politica. Intonano slogan auto-celebrativi, dicono di essere i prescelti, distribuiscono volantini sulla loro superiorità. Nessuno gli dà ascolto per strada, ma milioni di persone seguono l’evento in diretta. Non dare loro appoggio, nulla è mai cambiato per te ma tutto per essi.

Nessun posto sembra essere sicuro. Prova a rifugiati nell’arte. Vai al grande monumento per la celebrazione della crescita culturale: la mucca viola con collare. Un gruppo di turisti fotografa il simbolo. Sono tutti vestiti uguali, hanno le stesse facce, le stesse idee, sono l’omogeneizzazione dopo la caduta del muro. L’unione ha fatto venire meno la differenziazione individuale e dei popoli rendendo l’amalgama sociale un’aggregazione economica e guerrafondaia, per creare un unico essere formato da miliardi di cose vive rese simili.

Sei ancora in tempo, ma devi scappare prima di entrare nel progetto “automa”. Fatti largo. Attento però, stai entrando in una zona pericolosa. Palloncini rubati d’identità seguono i tuoi spostamenti, tutto ti spia. Le luci ammiccanti dei negozi nascondono trappole sulle tue possibilità d’acquisto. Gli orari del tuo lavoro invece segnalano la tua produttività, mentre per gli operatori economici indicano la tua inoperosità acquisitrice. Sei un servo della fabbrica addetta alla produzione degli esseri in serie. Il colore, l’età, il sesso lo decidi con una mail dal tuo telefono. In qualsiasi momento puoi farlo, possono rottamare il vecchio te stesso e sostituirlo con uno di nuovo, dotato di una mentalità anno 2017 fresca e in garanzia. In caso di guasto a malfunzionamento contro la società, un incaricato interverrà subito, per una pronta riparazione o sostituzione dei prototipi più resistenti. Ad ogni cosa la sua applicazione.

Cazzo hai preso la via sbagliata!

Ti hanno visto!

Quei due che ti stanno venendo incontro, sono loro, scappa!

Non indossano l’uniforme classica, nessuno si fida più degli uomini in divisa. Disperdi le tue tracce, getta a terra i tuoi documenti, le tue carte di credito, la tessera sanitaria. Senza dati, non sapranno chi sei, non sarai nessuno per loro.

Alla cieca sbattono su un muro, i loro sensori sono andati in tilt.

Ora non esisti, non sei mai esistito veramente. Hai abbastanza tempo per ritornare a casa tranquillamente prima che ti rintraccino. Non hai salvato nessuno, però l’importante è che non abbiano ancora preso te. Sei l’ultima speranza rimasta, proverai un’altra volta a moralizzare qualcun altro.

Ritorna alla tua abitazione, ti spiegherò tutto per strada.

Ascolta.

Non è facile da far comprendere. Tutto quello che vedi, che provi, che tocchi, è finto. Questa non è la realtà. Questo è il mondo che qualcun altro ha voluto che tu vivessi, ma tu non hai mai deciso niente della tua vita. Non voltarti. Ti prenderanno se non mi dai retta. Dimentica ogni cosa provata, era tutto finto, Giuseppe, tua madre, tutto. Se capisci questo non verserai una lacrima. Noi siamo solo dei burattini. La vita è un’altra cosa. Tutto questo è creato per illuderti. Le guerre, la politica, la fede, sono cose inventate per farti morire e la tua fantasia ne è la testimonianza. Sei costretto a vivere come loro vogliono. Guardati attorno, questo mondo è fatto solo di cose artificiali. Le cose naturali, vere, sono state cancellate. Hanno voluto sostituire la natura con le macchine. Non sei più un essere umano, sei un file sul computer di qualcuno che prima o poi deciderà di gettarti in un cestino. Rilassati, è difficile da comprendere all’inizio ma c’è chi non lo capirà mai.

Chiudi gli occhi e dimmi: quante cose puoi immaginare anche se non le hai mai viste? Di questo ti sto parlando; c’è un mondo che tutti rifiutano e che nessuno vuole assaporare. È un mondo che da piccoli sembra distendersi sopra ogni dove, non ricordi? La TV, i giornali, le città, il lavoro, tolgono i tuoi affetti e li riempiono di morte, disastri, di merda. Cancellano la tua vita e la rendono un limone fra il cemento.

Forza andiamo, manca poco.

Ecco laggiù la tua casa.

Risali le scale, i neon sono spenti, la porta è ancora aperta.

Entra.

Guardati allo specchio.

Piangi?

È normale, tutti versiamo lacrime da piccoli perché vediamo la realtà che vogliamo sfuggire, sottratta da plastica e sacchetti che soffocano la nostra più libera espressione, ma ricorda:

Tu non sei la tua carta d’identità, tu non sei un codice fiscale, tu non sei lo smog che si pone sulla tua pelle, tu non sei un prodotto, tu non sei l’ora dell’orologio, tu non sei un contatto, tu non sei.

Capisci? Eh? Non parli?

Dai muoviti, l’ora è scaduta, adesso alzati da quel fottuto letto e inizia a vivere!

LA CURA

«Voglio che lei mi curi, dottore.»

Concluse Vika.

Prese la ricetta uscendo dall’ambulatorio a testa bassa e si recò in farmacia con un passo monotono e stanco per le vie di un paese silenzioso e innocuo alle tre e mezza del pomeriggio. La bionda farmacista dal lungo camice bianco si avvicinò alla piccola.

«Dimmi tutto tesoro.»

Disse in modo gentile stampando sulla bocca un sorriso formato Natale. All’altezza del seno destro, la donna aveva un cartellino di riconoscimento con una foto: Lyse c’era scritto. L’immagine la ritraeva allegra su uno sfondo bianco. Lo scatto doveva essere stato fatto qualche anno prima a vedere dai segni lasciati dall’acne su quelle guance all’epoca paffute. Sembrava quasi un volto familiare e rimase a fissarla per un po’, sicura di averla già vista da qualche parte. Poi si scostò. Rimase in silenzio, allungò solo la mano mostrandole il foglietto.

«Ma piccola mia, non posso fornirti questo medicinale!»

Pronunciò la farmacista quasi scioccata da quello che aveva potuto leggere sulla ricetta medica.

«Me l’ha ordinato il medico, me lo deve dare.»

Rispose dura Vika, pronta a tutto per ottenere ciò che le era dovuto.

«Non posso. Sei troppo piccola, e poi a che ti serve? Non mi sembra che tu ne abbia bisogno…»

Continuò la donna, con un tono più da madre che da commerciante.

«Mi serve per la mia cura, e poi non sono piccola, ho 16 anni io!»

Ribatté la ragazza con decisione dal suo metro e cinquanta nascosto dal bancone.

«Va bene, calmati. Ma ragazza mia, ci sono altri modi per combattere certe malattie. E poi alla tua età avrai tanti divertimenti, tante cose da fare, e sicuramente avrai mille modi per far passare il tempo.»

Con tono persuasivo la commessa cercò di far cambiare idea a Vika.

«È questo che non voglio, che il tempo passi.»

Sentenziò la piccola.

«Un giorno capirai che solo il tempo può farti stare meglio.»

«Una vita di attese non fa per me, Lyse.»

Fine dei discorsi.

Zittita la donna consegnò la scatoletta a Vika che si recò a casa di corsa. Le chiavi strillavano dentro la borsa a tracolla ogni volta che saliva e scendeva dai marciapiedi. Le strade erano ancora semi deserte dalla sonnolenza post pranzo. Giunta nel vialetto dell’abitazione Block, il suo cane, si mise ad abbaiare sentendola arrivare. Aprì la porta e la chiuse sbattendola. Si sedette di fronte al tavolo in castagno della cucina ed estrasse la scatolina dalla bustina di carta recante il nome della farmacia.

Osservava la scatola con ammirazione come se fosse un’antica reliquia. Con fiato sospeso e sguardo attonito rimaneva seduta senza accorgersi che il cane, sotto le sue gambe, ringhiava in cerca di attenzioni, non riuscendo però a distrarla dal suo prezioso medicinale.

La scatola rimaneva lì, chiusa; sembrava che a Vika mancasse la chiave per aprirla. Si fece forza, non poteva rimanere in attesa tutto il pomeriggio. Fece un gran respiro e strappò l’involucro.

Inclinò il contenitore e dall’interno rotolò un’unica pastiglia.

Vika rimase stupita.

” ? ” Pensò.

Forse il dottore ha sbagliato ricetta, o forse mi ha prescritto una medicina fasulla per farmi felice; e se fosse stata la farmacista a farmi un brutto scherzo?

Tutti questi interrogativi circolavano nella sua testa mentre guardava quella pillola appoggiata sul tavolo. Perfino Block sembrava essersi ammutolito. Vika guardò bene all’interno della confezione in cerca di qualcos’altro e infilandoci un dito trovò un piccolo foglietto illustrativo. Non sembrava però il classico foglio pieno di indicazioni e controindicazioni, consigli sull’uso, sul monouso, sulle dosi da prendere. Recava una sola e semplice frase in una delle due facciate:

” TUTTO CAMBIERÀ DOPO L’USO “

La fronte della ragazzina si corrugò maggiormente dopo aver letto quelle parole.

Che significava? Cosa doveva fare? Doveva fidarsi?

Diede un attimo retta al cane che aveva ripreso a ringhiare e gli versò un po’ di cibo nella scodella. Poi tornò sui suoi passi. Tra poco sarebbe rientrata sua mamma, forse avrebbe potuto chiedere un suggerimento a lei magari assumendo solo mezza pasticca per il momento. Si sedette di nuovo sulla sedia di fronte alla tavola. Prese in mano l’involucro. Lo smontò e lo ricompose, ma niente di nuovo emergeva. Non c’erano date di scadenza né marchi nel cartone, ma solo il nome del medicinale che come sempre nascondeva un significano oscuro e incomprensibile:

” DOXEPINA “

Medicina, medicina mia, per un motivo ti ho comprata ma quanto sei strana. Disse fra sé e sé. Ovale, simile ad un ovetto di cioccolato color roseo, almeno dalla forma sembrava un farmaco normale e nessun particolare odore emergeva annusandolo. Doveva sentire il parere di qualcuno. Prese così il cellulare dalla borsetta e chiamò la sua migliore amica, Venarea.

«Pronto Venarea, ciao sono Vika, senti ti devo assolutamente parlare, puoi venire a casa mia, ora?»

«Ciao, adesso? Io stavo per uscire, devo trovarmi con Ania al parchetto tra pochi minuti!»

«Dai ti prego, è importante! Mi devi aiutare. È una cosa che potrebbe cambiare la mia vita, per sempre!»

«Sembra che parli sul serio Vika, sei incinta?»

«Ma no stupida! Dai vieni qua che ti spiego.»

«E va bene, chiamerò Ania e le dirò che non posso andare, aspettami!»

«Sì sì, fai presto, a dopo!»

Riattaccò il telefono e 15 minuti dopo suonò il campanello. Vika spalancò la porta.

«Eccomi! Allora dimmi tutto!»

Urlò l’amica.

«Parla piano, non vorrai che ci sentano i vicini!»

«Scusa…»

Vika allungò l’indice in direzione della tavola chiudendo la porta.

«Quello è il problema!»

Disse.

«Ma cos’è? Non vedo niente da qui.»

Sentenziò Venarea dalla sua miopia.

«Vieni, avvicinati, forza!»

Entrambe si accostarono alla cucina.

«Una pillola? E tu mi hai fatto venire qui per quella?»

Rispose l’amica vedendo il medicinale appoggiato sul tavolo.

«Ascolta lo so che sembra stupido, ma oggi sono andata dal dottore per chiedere una cura e lui mi ha prescritto questa cosa, solo che guarda, guarda la scatola! Non c’è scritto niente! E leggi, leggi su quel foglietto!»

«Tutto cambierà dopo l’uso… Che significa?»

«Non lo so, non so che fare, per questo ti ho chiamata! Non so se devo prenderla, se devo buttarla, se darla al cane, non lo so!»

«Potresti sì, farla assaggiare a Block, tanto che effetto vuoi che gli faccia?»

«No. Poi se sta male chi lo cura? E se facciamo a metà io e te?»

«A me non mi interessa che tutto cambi!»

«Già, sono io quella che cerca la soluzione ai miei problemi, credo che la prenderò allora…»

«Ora? Aspetta! Pensiamoci un momento!»

«È qui davanti a me, che devo aspettare? Ormai; e poi non voglio che mia mamma venga a sapere di questa roba, per cui devo. Mi sono convinta, avevo solo bisogno di qualcuno vicino per farlo.»

«Va bene Vika, se proprio vuoi…»

«Passami un bicchiere d’acqua.»

«Tieni.»

«Stringimi la mano…»

Vika prese la medicina, la scartò dall’involucro, la mise in bocca, bevve dal bicchiere, chiuse gli occhi e la mandò giù con l’acqua. Ora sarebbe tutto cambiato, almeno secondo il foglio.

«Allora come ti senti?»

Chiese con una smorfia l’amica, come se l’avesse presa lei.

«Normale, non sento niente, forse ci vuole un po’ prima che faccia effetto…»

Rispose Vika tranquillamente.

«Sì probabile. Allora senti Vika, io vado a casa e se hai bisogno o se stai male chiamami. Ma non ti preoccupare, vedrai che non succederà niente…»

Concluse Venarea.

«Ma io voglio che qualcosa succeda! Altrimenti perché avrei fatto tutto questo? Sì sono tranquilla e poi basta non pensarci…»

«Esatto, non pensarci. Ciao, ci sentiamo!»

«Ok ciao!»

Venarea tornò a casa e Vika rimase sola, sola con la sua pillola in corpo. Un po’ di timori li aveva, e cercava ogni modo per distrarsi, ma il pensiero era costante e circolava e circolava nella sua testa, finché arrivò sua madre e si calmò. In compagnia Vika pareva quasi dimenticarsi di quanto aveva preso.

E giunse così anche per quel giorno la notte. Bevve come di consuetudine una tazza di latte prima di coricarsi ma non ebbe sonno. Continui incubi, sudori, gola secca e insonnia la tormentarono. Forse erano gli effetti del medicinale che ora si era sciolto nello stomaco e saliva fino alla punta della lingua.

Alzatasi dal letto la mattina seguente si guardò allo specchio. Si spogliò scrutando ogni zona del suo corpo, ogni neo, ogni punto nero e pelo incarnito, ma niente era cambiato. Non stava neanche più male; andò a scuola un po’ assonnata e passò la giornata normalmente come ogni altro giorno. Fu una giornata talmente normale che prese anche un quattro in tecnologia.

Così fu il giorno seguente, quello successivo ancora e così via. Non succedeva assolutamente niente. Che fregatura quella pillola, tanti problemi e non accade niente; la noia è rimasta uguale, pensava la sfiduciata ragazza.

E poi venne una giornata piovosa piovosa, pioveva a dirotto. Il cielo era grigio, i capelli di sua mamma erano grigi, la strada davanti casa nera, le nuvole scure: sembrava che i colori fossero spariti. Ora su ora la situazione non cambiava. Il giorno passò in totale tristezza per quel cielo oscuro depresso. Arrivò dunque la notte. Bevve la tazza di latte preparata dalla madre. Si mise a letto e sognò semplicemente quello che non aveva visto durante il giorno: gli alberi colorati di azzurro, il cielo arancione, il sole rosso, il prato di casa viola, gli uccelli a pallini e le case rosa. Tutto strano ma normale in quell’immaginario che esprimeva spruzzi di pigmenti posti in modo causale come se Dio si fosse divertito a invertire ogni sorta di razionalità di riflessione della luce.

«Vika? Vika su svegliati che devi andare a scuola!»

Era già mattina. Non aveva sentito la sveglia. Sbadigliando scese in cucina, fece colazione bevendo una tazza di latte e mangiando una brioche ad occhi semichiusi. Poi si chiuse in bagno per lavarsi ma le mattonelle della stanza stranamente non avevano il solito colore blu scuro; riflettevano una luce rosea proveniente dalla finestra. Allora la ragazza si affacciò sbadigliando ancora e vide quello che aveva sognato: le foglie degli alberi azzurre, il cielo arancione, il sole rosso, il prato viola, le case rosa. Strofinò bene gli occhi con l’acqua, forse è il sonno che mi altera i colori, pensò. Ritornò alla finestra ma tutto era uguale a prima. Sembrava uno scherzo.

«Mamma che è successo fuori?»

«Fuori dove?»

«Fuori. Agli alberi, al prato, al cielo…»

«Non lo so, forse tuo padre ha tagliato l’erba!»

La madre si affacciò alla finestra.

«Mi sembra tutto normale. Però forse una cosa è successa: il signor Gerson ha cambiato cassetta della posta! Che vista acuta hai Vika!»

«Lascia stare mamma, vado a scuola, ciao.»

Disse la figlia desolata da tale indifferenza.

E Vika camminò tra mille colori sbagliati e tutto sembrava così irreale e incredibile. Il mondo era cambiato, le foglie le cadevano lungo i lunghi capelli resi bordeaux dal sole, mentre gli occhi si facevano ciliegia tra i prati viola. Un cane bianco con quella luce divenne rosa. Poi passò un uccello a pallini rossi che si fermò a bere l’acqua di una fontanella verde scuro. Sembrava di essere all’interno di una favola. Mancava forse qualche lupo cattivo e dei maiali intenti a costruire case e tutto sarebbe stato perfetto. Vika iniziò anche a sentirsi felice in quel mondo stralunato. Giunse a scuola e Venarea le venne incontro.

«Ciao Vika come stai?»

Chiese la compagna.

«Benissimo! Dimmi Venarea, di che colore sono le foglie di quell’albero?»

«Che domande fai? Ti si sono bruciate le pupille? Azzurre come sempre, di che colore devono essere?»

Rispose l’amica.

La favola era conclusa.

” TUTTO CAMBIERÀ DOPO L’USO “

Risuonò nella testa di Vika. Il sogno. Il sogno che aveva fatto la sera prima si era misteriosamente realizzato, e adesso? Poteva immaginare tutto ciò che voleva? Chiese a sé stessa. Non solo lei, ma anche gli altri dunque vedevano i colori sballati; anche gli altri subivano le conseguenze di quello che aveva pensato e visto nella sua mente. Che altre conseguenze avrebbe potuto indurre all’universo?

E venne notte, bevve del latte, ma aveva paura di addormentarsi. E se avesse fatto un incubo? Sognato la morte di qualcuno? Che cosa sarebbe successo? Decise di non chiudere occhio.

La mattina seguente, pur essendo molto stanca, si preparò come sempre, fece colazione sicura dei cambiamenti che erano avvenuti. Chiuse la porta di casa e attraversando il giardino notò che l’erba era ritornata verde, il cielo azzurro, il sole giallo, le foglie giallastre. Si strofinò per bene gli occhi ma era tutto di nuovo normale. Non capiva, era in preda alle allucinazioni? Arrivò a scuola e si recò immediatamente dalla sua amica.

«Venarea di che colore sono le foglie di quell’albero?»

Chiese spaventata.

«Ancora? Stai dando i numeri? Me l’hai chiesto ieri!»

Rispose seccata la ragazza.

«Su rispondi! Non fare domande!»

«Verdi-giallastre, sta arrivando l’autunno.»

Già l’autunno, poi sarebbe giunto l’inverno, il freddo, il ghiaccio, la neve. E Vika stanca dopo la scuola si posò sul divano e sognò. Si vide da piccola mentre giocava fuori casa lanciando palle di neve contro il povero Block. Il naso era freddo, la bocca ghiacciata e gli addobbi natalizi coloravano le case e i giardini circostanti.

Il luccicare di alcune luci la svegliò. L’albero di Natale sovrastava il divano su cui era distesa. I regali erano pronti e stipati in tanti pacchettini, le canzoni natalizie musicavano l’aria. Arrivò sua mamma, le mise il cappottino che aveva da piccola, il berretto, i guanti e la portò fuori nel giardino. La neve scendeva lenta, quasi fosse immobile nell’aria. Non si stava rendendo conto di nulla, intenta a giocare con Block e la madre. Era tornata bambina e il suo cervello non capiva quello che stava succedendo. Le luci lampeggiavano di mille colori, non si udiva nessun rumore, i capelli si facevano bagnati.

«Dai vieni qui a fare il pupazzo di neve!»

Urlava la giovane mamma.

E le sue piccole manine raccoglievano piccole pallottole di ghiaccio che gradualmente andavano a dare forma al manichino. Una carota, due biglie, una vecchia sciarpa: ora l’opera era fatta e magico divenne quel momento lontano. Poi entrambe corsero dentro ad asciugarsi sul fuoco del caminetto sorseggiando una bella tazza di latte caldo. E Vika osservò i regali recanti il suo nome che domani avrebbe aperto, finché si addormentò sul divano piena di gioia.

«Vika? Vika, su svegliati.»

«Mamma, i regali!»

Esclamò la piccola.

«Quali regali tesoro? Su alzati che è ora di cena.»

«Mah?»

Capì solo in quel momento: la pillola aveva fatto ricomparire le cose pensate. Questa volta erano vecchi ricordi a colori sbiaditi. Fece un gran respiro, quello che succedeva era troppo strano. Doveva andare dal dottore a chiedere cosa le stesse succedendo, oppure recarsi in farmacia per avere informazioni sul farmaco.

Però oramai era passato del tempo, e magari non si ricordano di me o di avermi dato qualcosa; prima o poi tutto questo finirà e questa storia rientrerà nel passato, si rispose nella sua mente.

Arrivò la notte, bevve il latte, ma non ebbe sonno. Decise di uscire. Mise gli anfibi, una giacca in pelle scura e andò fuori. Si stava stancando di quelle allucinazioni. Stava diventando pazza, confusa. Raggiunto il parco si sedette su una panchina. Si coprì il volto con le mani meditando su quelle strane esperienze.

Il vento iniziò a soffiare forte, le foglie a terra formarono cerchi danzanti accompagnati da cartacce e lei si ritrovò nel mezzo. La terrà incominciò a tremare sotto i suoi piedi, il cielo divenne scuro, le foglie scomparvero; tuoni caddero dall’alto mentre gli alberi si piegavano dalla forza del suolo. E poi fiamme d’inferno emersero dai crateri formatisi mentre le stelle scapparono veloci come asteroidi nell’atmosfera. In tutto questo caos, Vika rimase immobile con i capelli svolazzanti. Incrociò le gambe, fece brevi e intesi respiri compiendo con le braccia lenti movimenti a spirale con il fuoco che spuntava alle sue spalle e il cielo illuminato a giorno dalle stelle cadenti. E poi venne, con orgasmo e con pudore, e tutto sopra lei si colorò di bianco e ogni cosa sparì quando scoprì gli occhi ansimando per l’ultima volta.

Era l’alba. Un altro effetto collaterale della pillola. Doveva subito tornare a casa. Si alzò dalla panchina e inciampò dentro una piccola crepa. Si mise a correre veloce, spaventata, sotto la luna piena che illuminava ogni cosa lungo la strada. Il fiatone aumentava sempre di più ad ogni passo compiuto mentre ad ogni minimo rumore si girava di spalle intimorita che qualcosa o qualcuno la stesse inseguendo.

Entrò in casa. Sua mamma era in piedi ad attenderla.

«Dove sei stata?»

Chiese cupa in volto.

«Mamma, mi sono addormentata al parco, non lo so cosa sia successo…»

«Non dirmi bugie Vika!»

«Te lo giuro mamma, non mi sono sentita troppo bene, non so cosa mi stia capitando, sto avendo degli strani sogni.»

«Forse potrebbe essere uno sconvolgimento dei tuoi ormoni. Sai, questa è una fase molto importante nella crescita di un’adolescente, ed è facile nutrire interessi nuovi per i ragazzi. Hai avuto rapporti sessuali? Sei incinta?»

«Ma no!! Che dici! So gestire i mie ormoni e se avrò bisogno di un tuo consiglio verrò a chiedertelo! Ora per favore vado in camera e oggi non vado a scuola, ciao!»

Vika si diresse verso le scale.

«E usa il preservativo!!»

Urlò sua madre.

Aspettò che la mamma andasse a lavoro e poi di corsa si recò dal dottore, voleva chiarire, capire cosa le stava succedendo.

«Ciao Vika.»

«Salve dottore, veniamo subito al dunque.»

«Dimmi tutto piccola…»

«Si ricorda che qualche tempo fa sono passata da lei?»

«Certo, e devo anche averti somministrato qualche farmaco se non sbaglio…»

«Esatto, ed è proprio a causa di quel farmaco che sono qui.»

«Ti sei sentita male?»

«Mi sono successe delle strane cose…»

«Probabilmente sarà stato un effetto collaterale magari dovuto ad un sovradosaggio…Vediamo qui cosa ti ho dato…Si quel medicinale per la febbre. Che cosa ti è capitato?»

«Ho avuto un qualcosa simile a delle allucinazioni, direi, ma quale febbre scusi?»

«Per la febbre che ti ha colpito, comunque hai avuto mal di gola, insonnia?»

«Sì dottore. Ad ogni modo si chiama Doxepina il farmaco che lei mi ha dato…»

«Ah tu intendi la Doxepina… Devi sapere che è facile che succeda, sono capitati vari casi del genere su pazienti facilmente suscettibili, penso che tua mamma te ne abbia parlato. La Doxepina è un forte antidepressivo per cui può averti indotto a qualche allucinazione, visto la tua giovane età. Stai tranquilla…»

«Antidepressivo? Io volevo qualcosa che mi facesse stare meglio, invece quelle non erano semplici visioni: i sogni si sono trasformati in realtà! Che c’entra mia mamma?»

«Forse non avrei dovuto fornirti quel medicinale, ma tua mamma mi ha pregato tanto di porre rimedio alla tua situazione. In genere sono pochi gli esempi in cui questo farmaco viene dato ai minorenni. Solo in caso di un forte trauma un medico ne consiglia l’uso. Chiamerò tua mamma e le dirò di smettere di somministrartelo.»

«Che sta dicendo? Io ho preso l’unica pasticca che c’era nella scatola e c’era pure un bigliettino con scritto che tutto sarebbe cambiato…»

«Su Vika, devi essere un po’ frastornata, nella confezione ci sono venti pastiglie. Abbiamo deciso di fartele prendere a tua insaputa per non aggravare la situazione. Tua mamma ne scioglie una la mattina e una alla sera nel latte che bevi. So che non è piacevole, ma tu non ti sei più ripresa… Forse dovremmo stabilire un incontro con un analista, lui saprà gestire meglio la tua situazione. Purtroppo noi non abbiamo ottenuto i risultati sperati. Aspetta! Dove stai andando? Vika!»

Vika non rimase oltre, scappò confusa, incredula, non si era più ripresa da cosa? Corse in farmacia, doveva incontrare la farmacista bionda che le aveva dato la scatoletta e farsi dire esattamente cose le stava capitando. Entrò nel luogo dall’aria salubre, le venne incontro un anziano farmacista.

«Salve, volevo sapere se c’è la signorina Lyse.»

Disse in modo pacato la piccola.

«Come scusi? Lyse?»

«Sì esatto, quella ragazza bionda, alta più o meno così che lavora qui da voi.»

«Mi dispiace deluderla signorina, ma qui non lavora e non ha mai lavorato nessuna Lyse…»

Le porte si chiusero prima che la sua ombra potesse uscire. Stava tutto diventando un brutto incubo. Prima il dottore che le confida che sta assumendo un antidepressivo, poi l’infermiera che non è mai esistita. Che altro ancora le avrebbe sconvolto la vita? Guardava le sue mani e si toccava il volto cercando di capire se anche lei fosse vera, falsa o una allucinazione. Si diresse al parco, nell’unico posto in cui avrebbe potuto meditare, sola, sugli eventi.

Si chiuse in se stessa su quella stessa panchina che l’aveva vista protagonista di una visione, e poi, socchiudendo gli occhi, la memoria la portò indietro nello stesso parchetto dove, una Vika un po’ più giovane, pareva inseguire una ragazza, presumibilmente. Ma costei fuggiva sempre più distante e lontana senza farsi vedere mentre Vika la rincorreva urlandole di fermarsi.

Si riprese da quel pensiero, il sole che penetrava tra gli alberi le abbagliava la fronte e come un riflesso intravide una figura femminile nel parco. Si alzò e le andò incontro. La donna aveva dei lunghi capelli biondi ed era girata di spalle, pareva Lyse dalla corporatura. Vika urlò, ma la ragazza si scostò maggiormente, Lyse chiamò, perché poi? La donna aumentò il passo e Vika la vide allontanarsi ancora di più.

«Lyse dove scappi, fermati!»

La donna sembrava non sentire, come un fantasma sfuggiva ad ogni percezione finché sparì nel nulla. Vika rimase così foglia morta in mezzo alla strada. Un leggero venticello squassava il fogliame secco e ruvido che strofinava come carta vetrata l’asfalto. La luna alta penetrava nella sua camera rendendo argento ogni cosa al suo interno. Piangeva affacciata alla finestra, al chiaro di quella luce che però non illuminava la sua mente. Aveva fatto finta di bere il latte preparato da sua madre gettandolo nel water; probabilmente il dottore non l’aveva ancora chiamata. Rimase lì immobile a fissare il nulla. Si scostò dalla tristezza del momento, rivolgendo le sue attenzioni ad oggetti del passato posti sulle mensole. Pupazzi che la rimandavano a vecchie memorie, a vecchi giochi, bambole che ricordavano vecchie compagnie, vecchi felici passatempi. E questa Lyse, anche lei faceva parte del passato?

Venne la notte più profonda, il cielo si annuvolò, il vento soffiava prepotentemente, il chiaro di luna sparì invaso da frastuoni di ogni tipo che creavano brevi e intensi attimi di luce. Sentì lo squillo del telefono, poi dei pesanti tonfi risalire le scale e sua mamma che sbattendo la porta le dice di alzarsi che devono andare subito via.

La pioggia è incessante, Vika non sa nulla, non osa aprire bocca, ha con sé Block. Salgono nell’auto, la madre ansima guidando. La visibilità è scarsa, il tergicristallo sembra impotente a tutto quello scrosciare, i vetri s’appannano ad ogni respiro. Con la fretta di chi sa che qualcosa è successo, la mamma sorpassa le altre auto, gli stop diventavano dei lascia passare. D’improvviso, come un oasi nel deserto, appaiono delle luci lampeggianti blu in fondo alla via, ma sembrano ancora lontanissime. La mamma apre la portiera, scende, sparisce nell’acqua, Vika la insegue, si inzuppa i piccoli piedini, regge fra le braccia il fradicio cane. Dei poliziotti hanno messo delle transenne e del nastro attorno alle loro auto. La mamma urla, non si capisce, dei medici caricano un corpo ricoperto da un sacco nero all’interno dell’autoambulanza, una vettura distrutta risiede contro un albero. La mamma corre verso la barella, cercano di trattenerla, un dottore apre il sacco, la testa staccata dal corpo scivola giù dalla barella: quello è il volto di Lyse.

In questo momento Vika non sa più delimitare il confine della realtà con quello della finzione.

«Mi dispiace per sua figlia…»

Dice un poliziotto sotto la sua mantellina scura.

Sua mamma l’abbraccia forte, la pioggia si unisce alle lacrime, non c’è nulla che le protegga. Il volto di Vika è bagnato, il forte vento ha aperto la finestra, la tempesta non è ancora finita. Era tutto un sogno?

«No…»

Emerse dal buio una sagoma che si intravedeva in un angolo della stanza.

«Chi sei?»

«Tua sorella…»

«Lyse?»

«Annelyse…»

Il cuore di Vika smise di battere. Per molto tempo si era sottratta ai pesanti ricordi del passato che invece avevano continuato a vivere dentro di lei consumandola lentamente. Aveva trovato mille scuse per sottrarsi alla realtà, alla scomoda verità, fino a trovare un’illusoria cura a base di farmaci.

«Ci sei sempre stata tu al mio fianco, ora ricordo bene. Era con te che sognavo un mondo colorato e non grigio, dove gli alberi diventavano azzurri e i prati viola, dove non ci fosse razionalità nelle cose ma solo fantasia e divertimento. Era con te che andavo al parco a vedere le stelle cadenti immaginando che cadessero formando grandi fuochi. Erano tuoi i regali che aspettavo sotto l’albero di Natale; la mia sorella maggiore che ho sempre chiamato Lyse, colei che ho cancellato per non stare male, a cui ho attribuito tutta la mia tristezza. La persona dalla quale ho cercato una cura per sentirmi felice, ora è qua di fronte a me per dimostrarmi che ho sbagliato, ma io non sapevo cosa fare. Questa è l’unica cosa che posso dirti per discolparmi…»

«Non devi scusarti, né pentirti delle tue azioni. La soluzione, la cura che cerchi è sempre stata dentro di te e non nascosta in una pillola. Hai creduto che cancellando ogni cosa triste avresti iniziato a pensare alle cose felici, invece no Vika, ogni sconfitta, ogni cosa deprimente e brutta nella vita servono a renderti più forte se sai tenerle come testimonianza di come si possa toccare il fondo, perché solo una volta arrivati a tastare il punto più profondo della nostra esistenza si cerca il modo per risalire. Ma tu no, hai voluto fare finta di non esserci mai arrivata e hai cercato di salire per una corda che non è mai esistita. Così hai eliminato me, tutto quello che significavo e ogni tuo contatto col passato che tanto amavi, finendo per rendere il tuo presente una lunga agonia…»

«E ora? Che devo fare?»

«Vivi Vika, aggrappati ad una corda e non smettere di salire. Scalare è difficile ma non impossibile…»

«E tu, dove andrai?»

«Io? Sarò sempre nel tuo presente ora che non dovrai più rinnegare il passato…»

La luce del nuovo giorno penetrò nella stanza, il temporale era finito anche se del suo passaggio non rimaneva nessuna traccia. Aprì un cassetto del comò ed estrasse una polverosa scatolina. All’interno c’era una foto che ritraeva una piccola Vika abbracciata ad Annelyse. Posò la foto su una mensola vicino ad altre foto. Scese le scale, l’odore del caffè si diffondeva nell’aria, sua mamma stava preparando la colazione.

«Buongiorno tesoro! Allora come stai? Ti è passata la febbre? Potresti andare dal dottore oggi se non stai bene…»

Biografia

Simone Trombin (in arte Simon Trumpet) è nato nella provincia napoletana nel 1985 ma da sempre vive a Vicenza. Dopo il diploma di Geometra, consegue la laurea triennale in “Linguaggi e Tecniche di Scrittura” nell’ateneo padovano. È qui, grazie all’incontro con illustri professori quali: Adone Brandalise, Gian Piero Brunetta, Pier Vincenzo Mengaldo, e apprezzati scrittori come Mauro Covacich, Andrea Molesini e Roberto Ferrucci, che Trombin inizia ad elaborare ed a sperimentare un suo personale stile di scrittura e di narrazione. Si laurea quindi con una tesi sullo scrittore statunitense C. Palahniuk dal titolo: “Mostri, donne e società nell’opera di C. Palahniuk”. In seguito Trombin trova spazio per pubblicare i propri racconti su varie riviste e fanzine della provincia vicentina oltre che ha scrivere costantemente sui suoi personali blog. Nel 2011 arriva il primo riconoscimento per un racconto (Inizia a Vivere) di stampo fantascientifico, che vince il premio indetto dall’associazione “Il sentiero dei draghi” di Este. Dopo questa esperienza l’autore passa alla realizzazione del suo primo romanzo ancora inedito, Statale 11, e alla conclusione di questa sua prima raccolta di racconti: Al di là del nulla.

Contatti

Pagina Facebook: Simon Trumpet

Whatsapp: 3482461674

Mail: simonetrombin@libero.it

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L’INIZIO DI TUTTO HA UNA FINE

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Le transenne già sbarravano l’ingresso al parcheggio del Memorial Stadium.

Tutt’attorno dei nastri adesivi recanti la scritta, “Non oltrepassare”, delimitavano la zona.

«È quella l’auto». Disse Chad.

Con passo lento e fumando la prima Pall Mall della giornata, Dave si avviò dentro il confine segnato, scrutando l’orizzonte e poi l’asfalto. Sembrava tutto normale e nel parcheggio c’erano le poche macchine rimaste lì durante la notte. Si avvicinò a quella segnatagli dal collega mentre sospinti dal vento giunsero alcuni scontrini, una pagina dell’ormai vecchio Seattle News dell’otto Aprile e un opuscolo religioso semi bruciato.

Si trattava di una Mustang nera prima serie del ’63 con i finestrini sporchi di un rosso vivo, acceso. Un’auto fuori moda di quelle che solo giovani ribelli o dimenticate rock star oserebbero ancora guidare per sentire l’ebrezza dei potenti cavalli. Nessun altro segno particolare emergeva all’esterno dell’abitacolo e così, senza esitazioni, Dave aprì la portiera del passeggero per trovarsi di fronte lo scenario che in parte aveva già immaginato; solo però meno puzzolente. D’altronde visioni del genere appartenevano agli obblighi del suo mestiere, come l’abitudine a non provare nulla per ciò che vedeva.

La testa penzolava in parte sul sedile e in parte sulla portiera ed era impossibile darne un’identificazione. Probabilmente si trattava di un uomo, anzi, di un ragazzo tra i venti e i venticinque anni, carnagione bianca, capelli castani e nient’altro. Prese i guanti ed esaminò il posacenere.

-Pall Mall anche lui- pensò e raccolse alcuni mozziconi in un sacchetto cercando di non sporcarsi. Poi, visionando il resto, notò una lettera posata sul cruscotto.

“Soffiava il vento e la quercia

danzava seguendo le foglie:

era la tenera età in fiore che

mi accudiva alla luce del sole.

Petali d’orchidea profumavano

il tempo e il trascorrere dello stesso

rendeva invisibile la luna.

Le mie ghiandole producevano

polvere di stelle e mai vidi la notte:

ero immortale.

Poi caddero una, due, cento

gocce a riempirmi le lacrime.

Appassito lo sguardo,

appassito il sereno,

camminavo in un cimitero

e vidi che i fiori non avevano

più lo stesso sapore.

Divenni cenere prima di consumarmi

e la quercia seguiva le foglie mutare.

Accogli me natura

e riempi le mie spoglie

di nuova linfa affinché la mia stella possa brillare in eterno”

In lontananza un gallo cantò per la terza volta.

Dave tossì fortemente. L’aria stava cambiando. Strinse in mano la lettera e si inclinò verso il bauletto del cruscotto in cerca di documenti utili. Lo aprì. Il sole non era ancora alto e il cassetto era totalmente vuoto. Mancavano sia il libretto di circolazione sia il contrassegno dell’assicurazione.

«Hai cancellato ogni traccia di riconoscimento». Disse rivolto al cadavere.

Un rivolo di sangue scendeva lungo il braccio fino all’indice della mano e continuava il suo tragitto a gocce sempre più piccole sui jeans sporcando in parte le scarpe. Parabrezza e finestrino erano una gettata di vernice rossa mentre il volante aveva stranamente mantenuto il suo colore originale, tranne per una piccola porzione di quello che poteva rimanere di un occhio. La testa era completamente squarciata, esplosa. Materia organica sbrodolava sui sedili posteriori unita a macabri denti sparsi ovunque. Sul busto era posto un Remington calibro 20. Un’osservazione più accurata era difficile da fare in quelle condizioni perché non poteva toccare il corpo né spostarlo.

Scese così dall’auto e si accese una seconda sigaretta. Doveva attendere la scientifica che proprio in quel momento vide arrivare laggiù, in fondo al parcheggio.

2

L’anima si innalzava nel chiarore del cielo prima dell’alba.

Il corpo era immobile, fermo, privo di vita. Il rimanente di mezza testa penzolava sulla portiera sinistra e del sangue sgorgava sul finestrino. Le cervella si erano sparse un po’ di qua e un po’ di là all’interno dell’auto; piccoli pezzettini di ricordi si adagiavano uno all’altro in quell’orrido scenario mortuario. Eventi precisi, eventi sfuocati, erano ancora riconoscibili e vivi in attesa di svanire per sempre. La Pall Mall fumava ancora nel piccolo posacenere dell’auto; il puzzo delle viscere attaccava e sprofondava fra i sedili.

Il colpo era stato sparato da sotto il mento, da una distanza minima ma tanto grande da farti sparire. Un gesto veloce, apparentemente involontario, come la pressione dell’indice sul grilletto e boom: il cervello si stampò tutt’attorno simile ad un quadro di Pollock e la morte divenne per lui il capolavoro che noi tutti vorremo riprodurre. Un’opera perfetta a forma di proiettile; un disegno che si insinuò sferico passando dritto come i binari di un treno lungo il mento, i denti, la lingua, per proseguire poi attraversò la cavità orale, il naso, la fronte, andando infine a colpire i pensieri che si spensero con un OFF.

Il fucile, il pesante fucile, rimase stretto fra le gambe in posizione verticale con la testa ultima casella mancante di quel rebus che era la sua vita. Qualche istante forse di ripensamento; poi il suo ultimo lancio di sigaretta, lasciata così, senza finirla, accesa nel posacenere senza alcun rimorso per lei, per la sua fine bruciata, mentre dal mangiacassette una voce urlante ripeteva in continuazione: “Hello hello hello how low?” fino a stamparsi nella coscienza come il nuovo inno dell’ennesima generazione di giovani falliti.

Era notte fonda; le 3 e qualcosa all’incirca segnò quell’orologio del cruscotto sempre indietro. Il parcheggio era vuoto di persone e semi vuoto di auto sparse. Era giunto lì facendo molta attenzione. Per le strade buie, lungo le vie illuminate dai lampioni gialli, la sua macchina sfrecciava calma. Pochi incontri, per lo più casuali tra automobilisti sonnambuli e sgualdrine a lavoro. I barlumi delle luci si dipingevano come nuvole veloci sulla sagoma metallica; la luna appariva e spariva dietro i grattacieli. Il finestrino abbassato; quel tanto di aria necessaria a far sventolare i capelli. La temperatura non era rigida; le giornate iniziavano a lasciare sprazzi di serenità riflessa sul lago Washington. Era salito nel mezzo, giubbotto scuro addosso, i soliti jeans chiari mai lavati, la sacca col calibro 20 e la cassetta dei Nirvana nella radio. Una ventina di minuti lo separavano dal suo appartamento al luogo prescelto: il parcheggio del Memorial Stadium. Un posto ideale: grande, ampio e sopratutto deserto nelle ore tarde.

Ore 2; così di sfuggita osservava l’orologio della sua camera. La tapparella era abbassata. Un lieve fiocco di luce penetrava soffiato da una candela. Le ombre dei suoi movimenti si imprimevano sulle pareti buie come presenze oscure. Il silenzio era perfetto, simile a quello all’interno di una tomba e, nell’atmosfera di solitudine ricreata, immaginò il suo futuro nell’aldilà.

Un paradiso vuoto, freddo, dove angeli dalla pelle cavernicola cantano con voci stridule canzoni di pietà. La speranza che si fa menzogna, il cuore che si fa cemento, l’amore che si fa materialismo. Sono queste le leggi a cui si sente condannato; eppure, in tutto questo, il senso di fiducia non gli manca: l’arma da fuoco presto sarà il suo Luther King pronto a liberarlo da quella schiavitù di pensieri, di cose destinate solo a terminare e che in quel momento lo opprimevano costantemente.

Ma questo era ciò che egli sentiva; tutto questo era quanto lo animava e lo teneva sveglio; e prima, prima di altri incubi, il tempo per un’altra sigaretta.

“La vita è un infinito viaggio nel lato oscuro e nella psiche della nostra illimitata portata intellettuale. Le condizioni che ci limitano, ci costringono a vedere nella nostra buia interiorità; per cui, affrontate gli eventi, essi sapranno ricondurvi nel lato positivo, a cui, io non rigetto nulla, tranne la casualità di rendermi me stesso completo.”

Le frasi si unirono a versi e a canzoni canticchiate. Prese la penna per lasciare la sua firma, la firma alla sua vita di merda. Aprì il quaderno a fianco di una lettera bianca. Erano all’incirca le ventitré e ritornando da un fast food gli era venuta l’idea di scrivere. Ci era andato con la sua Mustang e prima di entrare in casa, aveva dato l’ennesima occhiata al titolo dell’edizione serale del Seattle News per dare una conferma a quanto aveva sentito.

Gli era salita la fame. Era già buio e non trovava l’orologio. Aveva perso coscienza per molto tempo. Appoggiò la testa sul pavimento. Non parlava più da qualche minuto, ora, giorno, non riusciva a capire. I movimenti erano lenti, calmi, le ossa sparivano dall’interno del corpo. La botta che saliva in testa lo liberava, lo contaminava, lo ammalava, lo alleggeriva e nient’altro; non esisteva altro che la botta. Era un crescendo d’insensibilità. Le emozioni venivano a mancare. Il vuoto le sostituì e divenne aria. Cadde come pioggia fredda; si espanse al suolo come un fiume in piena trascinando tutto quello che gli apparve davanti e nulla poté fermarlo. Scavalcò ogni difficoltà solo per la voglia che aveva dentro di scavalcarle finché la sostanza gli quietò l’anima e ritornò ad essere una particella innocua. Qualche momento per aspettare l’effetto. Estrasse l’ago, un goccia si levava dall’esile vena. Il laccio si strinse attorno al pallido braccio. Il cuore iniziava a battere: era tutto pronto. L’ultimo viaggio; aveva finalmente capito come smettere per sempre con quella merda così buona e così schifosa allo stesso modo. Faceva quasi tenerezza, bianca, pulita, nella bustina piccolina ma capace di essere penalmente il suo inferno costante da mattina a sera, tranne per i pochi istanti in cui gli circolava fra i circuiti del cervello; perché poi marciva, si avvelenava, le diceva ancora. Essere tesi e agitati non serviva a nulla. Non resisteva più a quella sensazione. Prese una decisione: doveva farsi. Il corpo iniziava a tremare: era il bisogno di fare sesso; sesso tossico. La penetrazione dopotutto è un atto importante per ogni rapporto. Lui e lei, soli.

Si aggirava per casa in preda quasi al panico col fiato a scatti dopo essere rimasto per molto tempo seduto sul divano, fermo, in attesa. Avvertii la fine sulle sue spalle; non poteva crederci. Anche l’ultima speranza se n’era andata. Era rimasto solo; ed ora? Fissava il nulla lasciato dalla televisione spenta. La freddezza del suo sguardo cristallizzava le lacrime nelle sue pupille.

Aveva appena assistito in diretta, sullo schermo, a qualcosa che non doveva succedere. La confusione era ancora molta ma la notizia sembrava essere confermata dalle poche parole del detective puntualmente intervistato dai giornalisti accorsi sul luogo.

«Sì, è lui…»

Rispose a volto basso.

«È Kurt Cobain…»

3

Driiiin!!

Driiiin!!

Driiiin!!

«Pr-onto…»

«Dave, presto devi venire al civico 171 di Boulevard Lake Washington, immediatamente!»

«Che succede?Chad? Chad che succede?»

La cornetta riattaccò.

Il gallo già cantava l’inizio di una nuova giornata. Dave si cambiò con i vestiti della sera prima; puzzavano di sigaretta, alcool, e forse donna. Salì assonnato in auto e mise la sirena blu sopra il tettuccio della sua utilitaria, non tanto per arrivare prima, ma affinché gli altri automobilisti potessero evitarlo se si fosse distratto. Anche questo faceva parte del suo lavoro: farsi svegliare nel pieno del sonno, senza fare colazione, senza essersi fatto una doccia. E gli extra fuori dal proprio turno non comportavano un compenso retributivo maggioritario, anzi, significavano solo l’addossamento di carichi lavorativi aggiuntivi uniti a tutti i problemi che ne conseguivano. Ma nel campo era uno dei migliori: molta esperienza, pazienza e intuizione gli avevano conferito la nomina di detective senza però potersi permettere un’auto un po’ più decente.

Accese la radio, era ancora troppo presto per il notiziario. Lo speaker non faceva altro che pompare questa nuova ondata di musica Grunge, che tanto nuova ormai non lo era, e nemmeno tanto più originale: tutto si era ridotto alla lotta per il nuovo single che avrebbe scalato le classifiche per la gioia delle major, le quali avevano reso avidi e corrotti quel gruppo di ex amici che avevano conquistato il mondo. Tuttavia interruppe subito l’ascolto; quel sound non faceva altro che aumentargli il leggero mal di testa che aveva creato quel risveglio improvviso.

Cercò una sigaretta; rovistò fra le tasche della giacca e dei pantaloni, ma niente. Nel posacenere era rimasto mezzo mozzicone di Pall Mall; non se ne diede molta importanza e lo accese. Il tabacco era secco e vecchio; del fumo acre entrò nei suoi polmoni.

La città ancora dormiva e il sole con calma iniziava il suo cammino verso l’alto. I mezzi che incontrava per strada erano per lo più camion carichi di merce o solitari clienti dipendenti al sesso.

Boulevard Lake Washington. Non conosceva benissimo la zona ma sapeva che si trattava di un posto caratterizzato da molte ville affacciate al lago; probabilmente si trattava di qualcuno di grosso, o qualcosa di grosso, visto l’urgenza della chiamata. Da una parte il lago, dall’altra il Mount Baker Park, in mezzo lui, tra il chiaro-scuro che filtrava fra la boscaglia con i suoi pensieri che si facevano più delineati, concentrati.

In una ventina di minuti arrivò al luogo dopo una sosta ad un distributore automatico di sigarette. L’area era collinare; fitte file di pini e abeti costituivano la corografia sulla quale si nascondevano le case di quei milionari. Accostò l’auto prima del mucchio di curiosi e di giornalisti che si erano stipati dietro le transenne e scese.

«Cos’è successo? Cos’è successo?» Chiedevano tutti in coro.

Si avviò lungo una stradina d’accesso non asfaltata con passo fermo, controllato, chiuso nel suo impermeabile. I capelli svolazzavano a causa di quella timida aria fredda che condizionava ancora la temperatura della stagione. Alcune vecchie pagine del Seattle News, datate sette Aprile, rotolavano a terra insieme ad alcune foglie. Mostrò il distintivo ad un poliziotto posto dietro il nastro adesivo ed entrò nel giardino della casa. C’erano alcuni agenti, qua e là, che non conosceva nel grande parco. Non sapeva nulla dell’accaduto; chi fosse la persona o le persone coinvolte. La situazione appariva tranquilla, forse fin troppo; vigeva una sorta di incredulità nei volti di quei poliziotti di sorveglianza che non avevano accesso alle indagini.

L’abitazione era una grande villa a due piani con muri spessi in mattoni grigi. Un aspetto che di per sé suscitava mistero; quella tetra fortezza era tutta avvolta dal verde di un prato tagliato perfettamente all’inglese senza alcun ciuffo fuori posto.

Giunse all’ingresso, attraversò il grosso portone in castagno e fece qualche passo verso destra nel soggiorno dove su un mobile vide una statuina del Buddha. Qui un collega lo fermò prima che potesse fiutare qualcosa nell’aria.

«Detective non è qui, deve andare dietro l’abitazione, nel capanno…»

Chi non è qui? Avrebbe voluto rispondergli.

Uscì e proseguì lungo le tristi pareti che si scontravano con quel sole, e poi lo vide poco distante; difficile da notare, là, il piccolo capanno: ecco dov’erano gli altri agenti.

«Buongiorno…»

«Ah, buongiorno Dave, entra pure…»

La porta finestra bianca era chiusa. I vetri riprendevano il suo volto incupito e curioso.

Tirò verso di sé la maniglia in ottone.

«Gesù Cristo…»

Furono le uniche parole che riuscì a dire.

Della testa poco rimaneva. Gran parte dei pezzi era sparsi sulle pareti del casotto. Una grande macchia di sangue si estendeva sotto il capo fin lungo le braccia mentre altri infiniti piccoli schizzi si estendevano a raggiera dal pavimento al soffitto. Si capiva che il colpo era stato dato da seduto. Il fucile a pompa, un calibro 20 Remington, era appoggiato sulla camicia a quadri e, in parte nascosta dallo stesso, una lettera macchiata di rosso.

La prese, guanti alla mano, e la lesse.

Era uno sconsolato addio alla propria arte, alle proprie emozioni da troppo tempo smarrite con un ringraziamento a chi lo aveva da sempre sostenuto e con alla fine un saluto ai propri cari.

La presentazione tra i due era finalmente avvenuta.

Stava quasi per coinvolgersi emotivamente nonostante il suo ruolo neutrale in queste faccende. A fianco dell’uomo c’era inoltre una scatoletta rossa, aperta. All’interno una serie di siringhe e una bustina. In tante scene del crimine questa appariva la più organizzata. Un suicidio tanto violento quanto premeditato. La lettera d’addio, l’eroina, e pure la carta d’identità posta a terra, formavano un bel quadretto di indizi che non dovevano lasciare dubbi su quanto accaduto.

Uscì dal capanno e si tolse i guanti in lattice ancora puliti. Non aveva toccato nulla lì dentro che potesse incuriosirlo e se ne andò. Non c’era altro da constatare: si dovevano solo attendere gli esiti dell’autopsia per stabilire l’orario del decesso.

Attraversò il giardino esterno della casa verso il cancello d’entrata e cercò di accendersi una sigaretta, ma a quel punto la massa di giornalisti lo fermò per chiedergli una conferma.

«Sì, è lui…»

Rispose a volto basso.

«È Kurt Cobain…»

«È stato un suicidio?» Chiese qualcuno.

«Sì, di quelli che non lasciano dubbi ai creduloni…»

«E ci dica: ci sono altri particolari da segnalare, detective?»

Una foglia cadde ai piedi di Dave.

«Non è ancora primavera…» Rispose stringendo le sigarette.

«Non è ancora primavera…»

Simon Trumpet

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Il piatto di San Valentino

Nel giorno in cui tutto è un luccichio di sentimenti,

questa bistecca sul piatto ha il gusto di cuore

e le patate scricchiolano tra i miei denti

come dei baci sul mio mento.

 

Ah, se lo ricordo, sì, il tuo alito.

 

Di frecce Cupido non ne ha più per me.

M’accontento di bistecche e patate.

Basterebbe solo questo a render l’uomo felice,

saremo solo cacciatori di iraconde bestie.

Ma ci vuole ben altro per soddisfare la fame.

Non basta no, un bel piatto pieno.

Ne passa anche l’appetito.

Lo dice anche il medico: niente cibi grassi.

Perché è così che va a finire a riempirsi il

piatto soli: si diventa obesi.

 

Ah, se lo lo ricordo, sì, il tuo alito.

 

Ci mettevi pure l’aglio sulle patate.

Ora m’accontento di sale e pepe.

Non ho altro da baciare, se non le posate

che poi andranno lavate.

Forse Cupido è vegetariano, per questo

colpisce il cuore altrui e non il mio.

Stupidi dei dell’aldilà!

Non si saziano nemmeno se offri loro

banchetti degni da stella Michelin.

Ma questo è l’ennesimo giorno buio,

senza sole e luna.

Non oso più vedere al di là del piatto.

Per cui stasera sto a digiuno, lo giuro.

Niente cuori da masticare e patate da baciare.

Solo io a cuore aperto:

chissà che Cupido mi centri nel petto!

 

Ah, se lo ricordo, sì, il tuo alito.

È per questo che ci siamo lasciati.

S. Trumpet

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Caro Leo, vuoi dire che il tuo film da 135 milioni di dollari è a impatto zero?

 

Leonardo DiCaprio

Leonardo DiCaprio accepts the award for best actor in a leading role for “The Revenant” at the Oscars on Sunday, Feb. 28, 2016, at the Dolby Theatre in Los Angeles. (Photo by Chris Pizzello/Invision/AP)

Ebbene, oggi mi sono alzato, e il grande telegiornale informatico di Fb mi spara a tutto spiano un Leonardo di Caprio che pronuncia frasi ad effetto a favore dell’ambiente. Tutti i social-patici del globo in questi momenti stanno spalmando le frasi di Leo a sostegno della natura. Dell’uomo, che una volta riuscito a vincere l’ambito Oscar, invece di ringraziare qualcuno o auto elogiarsi, parla di argomenti importanti rivolgendosi a milioni di persone intente a seguire la premiazione sui televisori. Già gli ecologisti lo stanno elogiando a mito, a Dalai Lama ambientalista. I giornali poi, lo stanno dipingendo di verde invece che di oro. Parole del genere non si erano mai udite ad un Oscar, ed è qui, che mi sorgono spiccati dubbi su quanto le parole, alla fine, rimangono solo parole. Sono rimasto un po’ schioccato anch’io nell’udire tali frasi, lo dico con sincerità e stupore, ma poi, ho visto il simbolo del dollaro e ho pensato: “Ma un film che costa 135 milioni di dollari, che impatto ha sull’ambiente?” Quanti sprechi e consumi ci sono nel realizzare tali enormi produzioni?

Si sa che tutto ha un costo sull’ambiente. Anche se volessimo realizzare un documentario benefit sull’ambiente inequivocabilmente danneggeremo l’ambiente più di quanto lo si voglia salvare. I film, quindi, sono a impatto zero? Le grandi produzioni salvaguardano l’ambiente?  Per non parlare poi delle milioni di persone che prendono la loro auto per andare a vedere questi film. The Revenant ha incassato 400 milioni di dollari. Se dovessi dividere l’incasso per il costo di un biglietto da 10 dollari, fanno 40 milioni di spettatori. Immaginate come se l’intera Spagna si fosse mossa in auto per andare al cinema consumando tapas e cerveza. Tutto ciò non ha impatto? E la pubblicità? Parliamo della pubblicità dei lanci dei film? Tra gli altri film in cui Leo recita vorrei ricordare: Titanic (spesi 200 milioni, guadagni 1 miliardo e 850 milioni), The Aviator (costo 110 milioni, 213 milioni di incassi), The Departed (costi 90 milioni, incassi 290 milioni), Inception (costi 160 milioni, ricavi 825 milioni). Siamo sicuri che Leo non abbia mai danneggiato minimamente l’ambiente?

Spesso si parla di fabbriche, industrie e automobili come fattori d’inquinamento, ma tutto ciò che per noi è solo fonte di divertimento, svago e passione, siamo sicuri sia ecologicamente sostenibile? Certo, preferisco un Leo che lancia dei messaggi alla classe politica, piuttosto che un Leo subdolo ai disastri del mondo, ma se il primo passo non lo facciamo mai noi, cosa volete che cambi? E’ un po’ come se un malato di cancro ti dicesse di smettere di fumare mentre lui continua ad accendersi sigarette. Se si vuole effettivamente fermare un cancro, dovremmo tutti stopparlo, non solo ricordare agli altri quanto esso possa essere dannoso.

Per cui bravo Leo per l’Oscar, ma la prossima volta dimostraci come i film che realizzi non danneggino l’ambiente, perché ho come l’impressione che il divertimento e lo svago vengano confusi come necessari per qualsiasi cosa, anche per contribuire alla distruzione ambientale.

E infine, due parole per il resto. Sì molto commoventi le frasi di Lady Gaga, sugli stupri nei campus universitari, d’altronde a Vicenza i soldati americani fanno lo stesso con le puttane o le ragazzine in discoteca. Un male comune, specchio della società Americana che vorrebbe essere d’esempio, ma io non ci casco, no. Perché il volto dell’America e proprio quello di capace di mostrarti l’orrore in pubblico (stupri e problemi ambientali) per poi commettere “l’errore” (o forse parlerei di segno distintivo di un popolo) di non dare nomination ad attori di colore, tanto che l’unico nero (Chris Rock) è il presentatore, a cui viene data la scena proprio per non renderla la serata della razza bianca. Ma non importa, viva la morale, viva la distanza di queste infinite parole e la realtà.

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Star Wars 7 – Un risveglio pieno di sforzi

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Stamane mi sono svegliato male, malissimo. Uno sforzo mi ha colpito lo stomaco. In un primo momento pensavo fossero le uova mangiate ieri sera, poi mi sono accorto di avere una spada laser conficcata ad altezza ombelico. La paura iniziale è stata tanta, poi mi sono ricordato di essere andato a vedere Star Wars. Con una grassa risata e lo sguardo ho estratto la spada laser, poi sono andato in bagno a fare uno sforzo lungo 10 cm spremendo bene le meningi. Lo stronzo era scuro, quanto la forza, e molliccio. A guardarlo bene pareva formare la parola Disney. E in effetti questo nuovo episodio della saga è una cagata pazzesca. Gli sforzi di ieri mi hanno fatto riflettere a dare dei voti per capire chi è cosa si è salvato dal non cadere nella merda.

CHEWBACCA – Voto 10. L’unico che dopo 30 anni si risveglia nel tirare fuori i coglioni. Non ha bisogno di tanti sforzi per colpire con un colpo di balestra Kylo Ren, ma d’altronde ce la potreste fare anche voi con 10 minuti di rosario al giorno. Recita la sua miglior parte di sempre. Da Oscar.

REY – Voto 8. Brava, bella, atletica, ottima parte, ma da dove cazzo esci? Si ritrova inaspettatamente con poteri da Jedi, non vorrei che fosse anch’essa figlia di qualche incesto. Beautiful insegna.

FINN – Voto 5. Uno stormtrooper  che si converte al bene per un po’ di sangue sulla maschera. Se quel sangue si fosse asciugato l’avrebbero fatto Santo a Napoli. Gli danno pure la spada laser e non sa nemmeno guidare l’X Wing. Alquanto banale.

HAN SOLO. Voto 4. La scena in cui corre è stata girata al rallentatore per farla sembrare più veloce. Certi miti era meglio non risvegliarli. Muore senza combattere, d’altronde non avrebbe avuto nemmeno le forze per reggere la pistola. A mai più.

LEILA- Voto 2. Il tempo passa per tutti. Forse se avesse fatto dei biscotti sarebbe risultata più simpatica. Notata solo per il cambio look, e bloccata più dalle sue vicende personali di chi la interpreta, l’incontro con SOLO ha un retrogusto da “C’é posta per te.” Alienata.

C3PO /R2D2 – Voto 1,5. Anche loro inseriti più per tenerezza che per altro, vengono rilegati a ruoli inutili e scontati. Rottamati.

LUKE SKYWALKER – Voto 1. A completare la sagra della nostalgia ci pensa lui, dove nella scena finale l’unica cosa che riesce a muovere è la mano, bionica.

KYLO REN-Voto 0. Ah, e lui sarebbe figlio di SOLO? Dal padre eredita solo il cognome. Un cattivo così brutto (fisicamente) e sfigato non si era mai visto. Certo, l’eredità di Darth è un difficile macigno da trasportare, ma in confronto Giucas Casella è penetrato in più menti indovinando anche qualche numero al lotto. Bimbominchia.

LEADER SUPREMO – Senza Voto. Finalmente a Smigol hanno dato un nuovo ruolo cinematografico. Impossessatosi dell’anello non sa guidare l’impero nell’impresa di schiacciare 4 nemici della resistenza. Ah scusate, devo aver sbagliato film. Confuso.

J.J. Abrams. – LOST.

DISNEY – Inclassificabile. Rendono una saga una commedia per bambini e persone della terza età. Nei prossimi episodi potrebbero inserire TOPOLINO alla guida dei cattivi, almeno potremmo dire di aver visto qualche novità. Non ci sono effetti speciali, il film è la copia di Star Wars 4, la morte nera dopo 30 anni non funziona più. La magia del cinema sviene se si ripropongono miti solo per il Dio denaro. Pensateci bene la prossima volta, i fan ve la faranno pagare. ILLUSORI.

 

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Eppure il TERRORE l’hanno inventato i francesi…

Siria, due anni di conflitto

FILE – Bullet holes are seen in a window in Tripoli, Lebanon, Saturday, Feb. 11, 2012. Clashes between pro- and anti-Syria gunmen in the northern Lebanese city of Tripoli left two people dead and 12 wounded in the latest skirmish between Lebanese factions over the crisis in neighboring Syria. (AP Photo/Bilal Hussein, File)

Non mi soffermerò su quanto già sapete o sappiamo, ma è curioso constatare che la parola TERRORISMO è nata in Francia per denominare quell’angoscioso periodo storico, nel quale i francesi, allo sbando tra rivoluzioni interne e contro la monarchia, ebbero la geniale idea di edificare un “REGIME DEL TERRORE” allo scopo di eliminare ogni nemico della rivoluzione o chiunque, in poche parole, la pensasse diversamente. Questo magistrale sistema governativo portò alla morte per ghigliottina (altro strumento di pace inventato dai francesi) di circa 17000 persone. Tale cifra aumenta però se si considerano anche coloro che vennero uccisi senza sentenza. Al di là dei numeri è interessante notare che in quel caso le vittime del terrorismo francese non furono siriani o musulmani, ma cittadini francesi. A distanza di 222 anni quindi 140 morti non sono nulla a confronto. Nemmeno la caduta delle torri gemelle eguaglia nei fatti quanto i francesi riuscirono a fare contro sé stessi. E per quanto assurda è la storia alcuni dei terroristi, coinvolti nelle stragi del 13 Novembre scorso, sono nati e vissuti in Francia, quindi a tutti gli effetti cittadini francesi. Altri avevano origini belghe (non mi soffermo nemmeno sulla vicinanza con la Francia), altri di presunte origini siriane (la Siria è stata una colonia francese dal 1923 al 1943).

A questo punto, mi sorge l’ironico pensiero di quanto i francesi siano abili e bravi a crearsi dei terroristi in casa, o, di come possa a loro piacere creare situazioni interne di terrore con lo scopo di vietare ogni dissenso al governo o chi per esso. D’altronde l’epoca del terrore la inventarono loro, e dopo l’11 Settembre ormai dovremmo avere la mente abbastanza sveglia da non farci ingannare da questi attentati pilotati che cercano di creare paura e instabilità tra le popolazioni occidentali. Sappiamo infatti, che dopo queste stragi, i governi si apprestano velocemente ad emanare leggi che limitano le nostre libertà e la nostra privacy “allo scopo di difenderci dai terroristi e da possibili attentati”. E di come, in questi casi, venga preso di mira uno dei cosiddetti “stati canaglia”(in genere uno stato del medio oriente ricco di petrolio e gas) e bombardato fino alla distruzione completa del punto d’origine dei presenti terroristi. In principio infatti furono i temibili Talebani e l’Afganistan; poi ci fu Saddam in l’Iraq per le armi chimiche (mai trovate); seguì quindi Al-qaeda con Bin Laden (amico d’infanzia dei Bush) in Pakistan, fino ai nostri giorni con l’Isis, il califfato e la Siria. E la storia continua con le sue pratiche di terrore, nato, ricordiamocelo in Francia.

Quindi adesso, io cittadino europeo, se dovessi commemorare e ricordare queste vittime francesi col il mio avatar di facebook col il rosso il bianco e il blu, dovrei avere la stessa capacità mnemonica di non dimenticarmi di tutti i terroristi nati negli ultimi anni e di tutte le bufale sul terrore che da quindici anni a questa parte ci stanno riempiendo le giornate. Ma allora perché tutti sembrano aver dimenticato? Perché nessuno nota le analogie con quanto già vissuto dopo l’11 settembre? Perché tutti credono ancora che il problema sia il mondo islamico o i presunti terroristi nati dal nulla e scomparsi nel niente?

No, io non voglio fingere con tutto rispetto per chi è morto. Non voglio abbassarmi a questo periodo del terrore che gli stessi francesi hanno creato. No, non canterò la Marsigliese. Non è il mio inno nazionale e non mi rappresenta, perché se lo facessi vorrebbe dire che supporterei uno stato canaglia che del terrore ha fatto da sempre la sua grande virtù, prima con l’uccisione di migliaia di suoi concittadini, poi colonizzando mezzo mondo, e ora innescando altre guerre per i propri interessi coloniali ed economici. Perché se solo provaste a leggere parola per parola cosa dice quell’inno ora tanto invocato, notereste come non faccia altro che inneggiare alla vendetta e al sangue, e io no, sinceramente non sono così ipocrita da piangere 140 morti e di gioire per migliaia di persone che vengono uccise per punizione.

 

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Cobain-Montage of Heck – Un gelato al grunge dolce e un po’ salato

Dopo aver visto il film su Cobain non posso che desiderare di andare “in Utero”, e oggi, da vero fan, non posso svegliarmi, indossare la felpa dei Nirvana, e fare finta che nulla mi importi di quanto ho visto. Ci sono sicuramente cose belle, bellissime che cogliono l’intimità Cobain e della sua famiglia, come le scene d’apertura di lui bimbo o di lui adulto con la figlia appena nata. Le parti animate poi, fatte all’occhiello, aggiungono fascino e aiutano a capire parte del suo vissuto. E le musiche dei Nirvana riadattate per l’occasione, creano un sottofondo profondo e d’atmosfera, ma il resto, per un vero fan, è un mix tritato di immagini già viste, interviste già sentite, scritti già letti, cose sapute e risapute. Se non fosse forse per il buon montaggio, che sa far rivivere i momenti di tensione come quelli di esaltazione, se non fosse per la bravura comunque del regista di far calare lo spettatore all’interno dei concerti, del privato dei protagonisti, degli anni ’90, di quello che era il mondo Nirvana, ci resterebbe in mano solo il triste finale, i 14 euro d’ingresso che Cobain avrebbe ripudiato, alcune immagini da censura, e le parole della Love, sempre pronta a considerare suo marito un tossico, e non una persona che va ricordata per il suo amore verso la figlia, la sua musica, la sua vita.

(canzone scelta: The money will roll in-cover dei Fang)

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Chissà dove sarai, ora…

No, non faccio il sentimentale. Non vale la pena farvi sentire tristi in un giorno che potrebbe essere già triste per voi. Esattamente un anno fa se ne andava mia nonna. No, non dirò che era più speciale delle vostre nonne, non dirò di quanto bene mi ha voluto, come credo ogni nonna del mondo. Semplicemente penso di non essermi mai troppo soffermato a pensare a questa perdita. Semplicemente in quei giorni ho chiuso gli occhi e ho camminato per qualche tempo ad occhi chiusi per non guardare in faccia la realtà delle cose, perché poi gli eventi sanno investirti come un uragano, e voi provate solo a fermarlo quell’uragano che si staglia dentro il cuore, la mente. E non me la sono sentita di farmi investire totalmente un anno fa, anche se avrei voluto, come non ho avuto il coraggio di essere lì mentre te ne andavi. Oggi mi chiedo, come molte volte con persone conosciute e sparite, dove tu possa essere. Sei scomparsa col sorriso, mi ha detto mamma, forse perché in quegli ultimi istanti hai rivissuto tutta la vita dall’inizio, come spesso ci raccontano, oppure perché in quei momenti il nostro corpo rilascia sostanze che generano piacere prima di sospirare, come ci insegnano i medici, eppure ciò che nessuno mai ci ha dimostrato è dove tu possa essere andata. Ad ogni modo ci sono più possibilità che tu possa essere da qualche parte a osservare la mia vita e quelli degli altri cari, e questo sicuramente è rassicurante e confortevole, rispetto a questo domanda sul dove sei a cui nessuno ha mai saputo rispondere…

Buon viaggio, nonna…

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